#scuola Quale Riforma? Uno stimolo da Claudio #Cremaschi

Claudio Cremaschi, autore di Malascuola, un interessante libro sulla scuola italiana, con una lettera a Civati prova ad avviare il dibattito, soprattutto “a sinistra” sul futuro dell’istruzione in Italia.

Molte delle proposte, già avanzate e dettagliate nel libro di qualche anno fa,  sono del tutto condivisibili.

A mio avviso il punto centrale è quello dell’autonomia. Da un lato essa può consentire l’avvio di circoli virtuosi, dove buoni dirigenti, appoggiati da genitori partecipi, scelgono motivano e premiano bravi insegnanti, ma dall’altro si rischia anche l’avvio di circoli vizioni. Spirali dove nelle zone meno fortunate cattivi dirigenti con genitori poco presenti (o senza i necessari strumenti) gestiscono secondo criteri personalistici o di gratificazione immediata del “pubblico” scolastico.

 

Lettera a Civati sul tema della scuola

di Giorgio Cremaschi

29 ottobre 2013 alle ore 15.07

Ho scritto a Civati quello che penso sulla parte del suo documento relativo alla scuola. Ho scritto a lui, perché ha affrontato con una certa decisione l’argomento, mentre nei documento degli altri tre competitor sono presenti solo affermazioni generiche. Ma se anche loro vorranno dare un’occhiata…

Nel documento di Civati, la parte dedicata alla “rivoluzione culturale” che comprende scuola, università, ricerca, digitale… ha una notevole importanza, molte analisi sono condivisibili, alcuni punti nodali sono ben evidenziati; a differenza dei documenti degli altri competitor entra anche nel merito, assumendosi con ciò alcuni rischi.

Anzitutto non mancano le contraddizioni, probabilmente dovute alla cucitura tra diversi contributi, come il riferimento forte e preciso ai test PISA  e all’indagine PIIAC, che testimoniano i vari deficit della scuola italiana, seguito dalla critica demagogica alle “crocette dei famigerati test INVALSI”, temo per condiscendenza alla parte conservatrice della sinistra che in realtà non vuole nessun controllo e nessuna valutazione, o più semplicemente ignora gli strumenti e le tecniche valutative, ancorata  ai riti dei “temi” e delle interrogazioni orali. Serpeggia nel documento l’eco dei rituali refrain conservativi e difensivi tipici della vecchia sinistra, come la difesa della scuola pubblica contro i soldi alle private, le lamentele sul rapporto alunni-docenti. Si portano a sostegno alcuni dati OCSE,che confermano gli scarsi investimenti sulla scuola in Italia rispetto al PIL o alla spesa pubblica, ma se ne ignorano – volutamente? – altri che dimostrano come, nonostante i tagli degli ultimi anni, nella scuola italiana la spesa pro-capite è ancora sopra la media OCSE (in particolare nella scuola primaria e secondaria, mentre crolla nel livello terziario), e il rapporto fra docenti e discenti è ancora tutto a vantaggio della scuola italiana, mentre il numero di ore di lezione è nettamente più altro che negli altri paesi. Così come si spezza una lancia a favore della stabilizzazione dei precari, ma non si capisce come ciò si concili con il dato allarmante dell’età media del corpo decente italiano che è tra le più alte al mondo, e col diritto e la necessità di aprire le porte dell’insegnamento ai giovani laureati.

Insomma, mi pare che, a parte la parola “rivoluzione”, manchi il coraggio o la consapevolezza della necessità di ribaltare una scuola nata 100 anni fa, e tale rimasta nelle strutture, nei riti, nei contenuti, nei tempi. Scuola che la sinistra della mia generazione ha contestato negli anni 60; ha cercato di cambiare negli anni 70 e 80 a colpi di sperimentazione, aggiornamento, computer, vertenze sindacali; ha sperato di vedere trasformata radicalmente 15 anni fa con il progetto di Berlinguer; e ormai da anni osserva sconfortata il richiudersi della sinistra su posizioni difensive, quando non conservative e reazionarie. Le uniche battaglie dell’ultimo decennio sono “contro”: contro la riforma Gelmini, contro il maestro unico, contro i tagli, contro la scuola privata… o “in difesa”, della scuola pubblica, del liceo classico, delle materie più disparate, deiprecari… cose spesso giuste, sia chiaro, ma quasi sempre sfociate in sconfitte, anche perché assolutamente insufficienti per descrivere la scuola di cui l’Italia ha bisogno per i prossimi trent’anni, e indicare come arrivarci. Senza accontentarci delle litanie che ripetono “più soldi alla scuola” (di sicuro necessari, ma lo dice anche Pittella!), che non ci dicono in che direzione andare e perché.

Purtroppo anche il documento di Civati, a ben vedere, non propone soluzioni, né tanto meno“visioni”. Allora meglio restare sul generico, come gli altri. Ma se si entra nel merito, non ci si può accontentare di chiedere più autonomia (giustissimo!), senza spiegare in cosa consiste, se non quando si legge di “ripristinare” il fondo per l’autonomia delle scuole”: ancora e solo questione di soldi, per giunta pochi. O di far percepire che l’abolizione del precariato (giustissimo!) passi da qualche nuova sanatoria piuttosto che da un rigoroso sistema di selezione, formazione, valutazione, che apra spazi a leve di giovani insegnanti. O invocare l’estensione della scuola dell’infanzia e del tempo pieno, senza spiegare dove si prendono i soldi.

Lo so che in un documento congressuale non si può entrare troppo nei dettagli. Ma l’idea di dove si vuole andare ci deve essere, e deve essere un’idea forte, da vera “rivoluzione culturale”. Unita alla capacità di spiegare come si fa, con quali risorse, se non ci si vuole ridurre al classico velleitarismo del “vorrei ma non posso”, perché c’è il debito pubblico, ci sono altre priorità, ci sono i sindacati, le larghe intese…

Se dovessi provare a formulare in modo sintetico e schematico quale “rivoluzione” occorre alla scuola italiana e rispondere alla famosa domanda “che fare?”, proverei a sintetizzare così:

–     E’ necessaria una radicale trasformazione della scuola, sostanzialmente ancorata alla riforma Gentile, che ne adatti i tempi, le forme, i contenuti i metodi alle necessità di questo secolo, di un mondo in cui le conoscenze non sono trasmesse come una volta solo dalla scuola, un mondo in rapido sviluppo, un mondo globale multietnico e multiculturale. Ma non si fa una riforma radicale senza il coinvolgimento degli attori principali, gli insegnanti, oggi sempre più frustrati e demotivati. E non si fa una volta per tutte, al ministero. La risposta è una vera, reale, radicale autonomia delle istituzioni scolastiche, che ricevono un budget (di soldi e personale) e gestiscono e adattano i metodi gli strumenti e i tempi ai bisogni dei singoli alunni, personalizzando i percorsi, abbandonando la scuola rigida  e tayloristica delle classi d’età, dei programmi, degli orari, dei calendari, delle lezioni frontali. Scuole aperte tutto il giorno e tutto l’anno, per gli studenti e per la comunità locale. E per far questo deve sparire il ministero, come centro regolatore e direttivo, cedendo tutte le decisioni alle unità scolastiche, compresa la selezione e l’assunzione del personale, come fanno tutti gli enti autonomi, ancorché pubblici, come le amministrazioni locali. A livello centrale deve restare solo il compito di indirizzo, e di valutazione, che ha come obiettivo principale il miglioramento del processo d’insegnamento-apprendimento. La scuola deve essere permeata da un sistema – facente capo all’INVALSI – di autovalutazione, di valutazione esterna, di “valutazione tra pari” (scambio e confronto sistematico e strutturale tra docenti della scuola e tra scuole)…

–     Questo si realizza con una reale valorizzazione dell’attore principale, il corpo docente. Non servono “più insegnanti” (ne abbiamo già troppi!); servono i migliori insegnanti possibili, formati, selezionati, valutati, giovani e motivati. Con una carriera professionale, con stipendi adeguati. Che non cambiano scuola ad ogni nuovo anno scolastico. Non dei missionari, ma veri professionisti della formazione. Bisogna affermare con nettezza che non servono “tanti” docenti, non ne servono più che negli altri paesi europei: servono invece buoni, anzi ottimi insegnanti. Motivati, preparati, selezionati, valutati, gratificati. Dobbiamo disegnare una professione che non si offra come un ripiego per casalinghe part-time, per professionisti che vogliono garantirsi la pensione, per laureati che finiscono nella scuola come ripiego perché non hanno trovato altri sbocchi. Ma per far questo occorre che la “professione docente” sia un mestiere in grado di attirare le energie migliori, giovani motivati che scelgono di insegnare perché è un mestiere gratificante, con adeguate prospettive di riconoscimento economico, sociale e professionale. E allora occorre una premessa, forse antipatica. Un docente professionista deve guadagnare molto di più, quanto i colleghi europei, ma deve anche essere occupato nella scuola a tempo pieno, e tutto l’anno. Deve finire quell’implicito patto perverso che ha finora dato vita a una professione a mezzo servizio e con mezzo stipendio.

–     Serve un’opera generale di trasformazione degli edifici scolastici, da realizzarsi con un piano pluriennale che rappresenta anche uno stimolo al rilancio dell’economia. Ma non basta la messa in sicurezza: oggi gli edifici scolastici sono pensati coerentemente all’idea tayloristica della scuola. Aule e corridoi, qualche laboratorio, dove si è fortunati, ma in genere anche questo organizzato in modo gerarchico, cattedra e banchi. La struttura delle scuole – che sembrano oggi piuttosto fabbriche, o uffici, o prigioni – deve cambiare radicalmente, seguendo i modelli europei più avanzati. Spazi flessibili, luoghi di studio individuale  e di gruppo per studenti e docenti, mense, laboratori, luoghi di incontro. Meglio vendere i vecchi edifici nei centri storici e costruire in modo radicalmente diverso.

–     Per rifare la scuola occorrono tanti soldi. Che non ci sono e non ci saranno per un bel pezzo. Ovviamente bisogna spostarli da altre spese, tipo la difesa, il palazzo, ecc. Ma anche riuscendo ad aumentare di qualche decimo di punto di PIL la spesa per la scuola, portandola in linea con i paesi europei, non serve a nulla se si spendono a pioggia, per qualche insegnante in più, qualche sperimentazione, qualche aggiornamento, qualche euro di aumento stipendiale. Tutto (o quasi) quello che si riuscirà a recuperare andrà investito sull’edilizia scolastica (che richiede somme ingenti), anche perché oggi può essere un motore per l’economia. Allora per realizzare la scuola dell’autonomia, aperta, inclusiva, flessibile, con un corpo docente all’altezza e adeguatamente retribuito, occorre un’altra strada, occorre sopperire con l’intelligenza. E riorganizzare la scuola in modo da recuperare e ri-orientare le risorse che oggi vi si spendono in modo sbagliato. Non si tratta di ritocchi, ma di interventi radicali, che già di per sé facilitano il miglioramento del processo di insegnamento /apprendimento, e che liberano ingentissime risorse (umane e finanziarie) da reinvestire nel sistema di istruzione. Ne ho scritto con un certo dettaglio nel mio volume Malascuola (ed. Piemme 200), che regalai a Pippo a suo tempo. Richiamo  quattro punti principali:

a)     ristrutturazione dei tempi della scuola, anche questi ispirati a logiche tayloristiche, con una rigida successione di ore di materie, settimana dopo settimana, anno dopo anno. Tempi stretti, tante ore concentrate in una mattina, stipate in una settimana, compresse in nove mesi.  Dilatiamo il calendario scolastico da 32/33  a 39/40 settimane, come in molti paesi europei, distribuendo di conseguenza l’orario delle lezioni.  Scuola più leggera, sabato libero, meno ore di lezione settimanale (ma non meno tempo scuola, che è un’altra cosa), facilità di articolare i percorsi in modo flessibile, su quadrimestri o bimestri. Si libera circa un sesto del personale docente (oltre ad altri risparmi per la collettività e le famiglie).

b)    Riduzione di un anno del percorso scolastico primario/secondario (due cicli soli, con unificazione della scuola primaria e media di primo grado) come già previsto dalle riforme Zecchino/Berlinguer (università passata da 4 anni a 5), consentendo l’uscita dalla scuola secondaria a 18 anni (come in moltissimi paesi europei) e dall’Università a 23. Anche qui fortissimo risparmio, con possibile utilizzo all’anticipo dell’obbligo a 5 anni e generalizzazione della scuola dell’infanzia.

c)     Riduzione ore di lezione curricolari. Che non vuol dire ridurre il tempo scuola. Ma prendere atto che i processi di apprendimento non avvengono (più?) con il classico sistema della lezione frontale e con il rituale della spiegazione, studio, interrogazione tanto caro a vetero intellettuali di sinistra e teorizzato da Paola Mastrocola ( Lascuola, lo ridico, è questo: l’insegnante spiega, l’allievo studia, l’insegnante interroga e l’allievo ripete). Meno ore di lezione, più spazio per studio assistito, tutoraggio, gruppi di ricerca, creatività autonoma… che anche per gli insegnanti vuol dire non altre ore di lezione (come ha tentato di fare il governo Monti), ma più tempo a scuola, per lavorare in equipe e per seguire gli studenti, a gruppi o singolarmente. Anche qui significa che a parità di insegnanti cambia il rapporto docente/studenti, ma non tanto e non solo in termini numerici, riferito al numero di studenti per classe. Perché anche la classe, sempre uguale in ogni ora e in ogni materia, è un’idea vetusta da smontare.

d)    Il 25%  di abbandoni nella scuola italiana (il 30% nella scuola pubblica!) sono un costo sociale enorme e un indicatore evidente di malfunzionamento della scuola. Come il numero abnorme di studenti che ripetono un anno scolastico, anche più di una volta nel corso del loro curricolo. Con costi anche economicamente spaventosi. 650.000 studenti ogni anno che ripetono, sono un costo di 3 miliardi di euro, la cifra spesa per salvare Alitalia, o il costo delll’ICI.  Cui si aggiungono i costi per i corsi di recupero, i costi delle lezioni private.  Riuscire ad abolire gli insuccessi è quindi anche un obiettivo economico. Si può fare abolendo ripetenze (inutili), corsi di recupero (inutili) e investendo le risorse per una scuola in grado di rendere inutilile ripetenze e i recuperi. Come? Con le indicazioni fornite sopra, sui tempi, sui percorsi assistiti, lasciano sperimentare alle scuole autonome. E personalizzando i curricoli, come hanno fatto in Finlandia, consentendo aglistudenti di scegliere le materie e i corsi più congeniali, senza costringere alla ripetenza in tutte le discipline uno studente che non riesce in una sola, e non promuovendolo in quella disciplina solo perché riesce in tutte le altre.

 

Aggiungerei qualche considerazione sui laureati e diplomati. Non è solo questione dinumero, ma di qualità e indirizzo. Non basta “un sistema didattico che consenta di aumentare il numero di laureati nel nostro paese”. Occorre rivedere la riforma Zecchino (3+2) che non ha prodotto percorsi triennali spendibili come qualifica professionale di primo livello. E disincentivare l’abnorme proliferazione di indirizzi pseudo- umanistici (ma chiamati pomposamente “scienze”: politiche, della formazione, della comunicazione) tanto all’università che nella scuola secondaria, che in aggiunta alle tante pedagogia, psicologia, sociologia,  producono una massa di disoccupati intellettuali, gran parte dei quali torna a premere sulla scuola come ripiego, rimpolpando il numero dei precari.

2 commenti

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2 risposte a “#scuola Quale Riforma? Uno stimolo da Claudio #Cremaschi

  1. Maresa Berliri

    Articolo molto interessante. Molte delle proposte di Cremaschi mi convincono. Come lui dice, se vogliamo far fare un cambio di passo al nostro paese occorre avere coraggio, intelligenza e creatività e riformare la scuola in modo profondo, valorizzando al massimo le risorse disponibili.

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